Come si poietizza il desiderio?

Noura Tafeche
11 min readSep 11, 2019

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“Money Creates Taste” opera di Jenny Holzer.

Articolo apparso, in versione ridotta, sul Corriere della Sera — 11 Aprile 2017.

Ho cominciato ad accusare un principio di fortis suspicio due anni fa, poco prima di incappare nella lettura della storia di Mariah, la “prima donna con il velo” ad apparire sulle pubblicità di fast fashion H&M, alla quale congiuntamente venni a conoscenza che esiste una versione di Vogue Italia specializzata — a suo dirsi, nella black culture.

Questo mi é da subito parso come un goffo, embrionale, tentativo di strumentalizzazione che sospettavo appunto avrebbe avuto un fulgido seguito e che, per mala sorte, avrebbe influenzato la generazione successiva alla mia.

Qui nasce una riflessione.

Il periodo adolescenziale viene spesso percepito come un momento della vita caratterizzato da fragili equilibri, dirompente conflittualità interiore e un’intensa attività emotiva che oserei brutalmente definire come, in termini di produttività, il consolidamento del passaggio tra egocentrismo infantile ad adulto funzionale, quel soggetto in grado di produrre indipendentemente uno stile di vita sostenibile. L’atteggiamento di conferire grande importanza verso questo periodo di vita, spesso é parso più un accanimento che una scienza, altrimenti detto, un’invenzione sociale la cui cerchia di psicologi, insegnanti, medici si é dimostrata interessata a studiarne gli aspetti per farne fruttare le problematiche.

Come già urla il titolo del libro “La congiura contro i giovani” di Stefano Laffi, ricercatore e fondatore dell’agenzia di ricerca Codici Ricerca di Milano, le/i ragazze/i vivono in un perenne stato di provvisorietà, di una vita che gli adulti hanno preconfezionato per loro, spesso riversando su di esse/i i desideri, le aspettative e le conquiste in cui i genitori hanno fallito senza accettazione, un compendio di frustrazioni che i giovani non sono in grado di sopportare.

Lo stridore e l’attrito che si crea con la figura della persona “giovane” e la società é spesso generato dalla creazione artificiosa del personaggio dell’adolescente, di modo che durante questa transitoria fase di vita si abbia il permesso di tartassare la persona allo scopo di formarne il carattere e disciplinarne i gusti in maniera irreversibile. Il sistema sociale in cui prospera la mentalità tipo tardo-capitaldecadentista, conosce la fragilità di questa fascia, manipolandola impunemente, adescandone e accogliendone il bisogno di conforto e protezione, regalando poi possibilità di aggregazione attraverso calcolati modelli di rappresentazione e sovraidentificazione.

In questo caso, il consumismo si vanta del ruolo trasversale di subentrare nella vita giovanile per soddisfarne bisogni e consolarne mancanze, supplendo a tutto lo spettro di non-corrispondenze con il mondo esterno.

Nell'odierno panorama culturale Italiano-Europeo, le/gli adolescenti subiscono, senza fare vittimismi, un eventuale se non raddoppiato sistema di pressione da parte di panzer-corporations-istituzioni che gli ricordano di sentirsi inadeguati persistenti, sia dal punto di vista legale (“gli italiani con il permesso di soggiorno”, lo ius sanguinis) che dal punto di vista emotivo e culturale (“non esistono neri/arabi/musulmani italiani”, “tornatene al tuo paese”).

Tale società ci fa sentire scarti. Persone rifiutate, minacciate, approval-pending, sotto perpetua osservazione — talvolta con stupore talvolta con sospetto, talvolta con un safaristico stile di ossessiva curiosità.

Ciò porta a una conseguenza, comprensibile e al contempo dai contorni periclitanti: la chiusura e l’allontanamento dal mondo che ci giudica.

Se il mondo non ci rappresenta e nemmeno ci accetta, bene, andremo a ripararci tra le braccia consolatrici di gruppi e micro comunità in cui possiamo sentirci confortati e non giudicati, senza obbligo di giustificare la nostra adesione.

Quando l'esasperazione porta al sentimento di sentirsi sopraffatte/i é fisiologico iniziare a selezionare le amicizie, le cerchie e i contesti rassicuranti. Talvolta, il sentimento che ci anima non ci dirige verso affinità elettive caratteriali o sentimentali, ma verso prossimità esperienziali, per poter condividere con altre/i il peso e le vessazioni che si ricevono nel medesimo modo in cui si son subite in prima persona.

Andare in cerca di una legittima forma di comprensione, accettazione e compensazione é un atto in sé liberatorio perché in noi sentiamo un’autentica necessità di poter condividere emozioni ed esperienze simili senza il filtro dell’auto-censura. Al contempo sull’altro piatto della bilancia, nel momento in cui si condivide un problema comune, ci si specializza in un dolore personale, privato, idiomatico, che non sempre permette di essere comunicato o tradotto.

Le differenze e le sofferenze diventano così un vessillo, un marcatore di estraneità.

Le generazioni contemporanee figlie di uno ius soli mancato, non sono solo discendenti di continenti e stili di vita diversi, ma sono anche figlie di stereotipi, gli stessi ereditati dalla generazione precedente, quella di sorelle fratelli e genitori, isolati e bollati da un’Italia puntualmente impreparata e immemore della sua stessa storia.

A questo punto subentra un protagonista invisibile.

Un efficace metodo per affermare le personalità delle/dei giovani generazioni é l’imposizione del consumo.

Qualora si tratti di prodotti, oggetti, attitudini smerciabili per confermarne l’esistenza e il gruppo di appartenenza, che, per processo imitativo, diventa una macchia autopoietica.

E’ opinione diffusa che se un micro gruppo inizia a sentirsi affermato attraverso questo o quel prodotto, quel modello rappresentativo di successo si diffonda per raggiungere una scalarità macro.

Ne deriva perciò che é interesse del capitale stesso trarre beneficio nell'accentuare la classificazione e l’esasperazione tra soggetti, per poi lasciare che da soli si dirigano o si autodirottino per meglio acquistare nella direzione diversificata che il mercato offre loro, procurandosi così occasione di prosperare in settori da se stesso ben definiti.

Emblematico é il caso storico del brand Jordan.

Come fu descritto nella tesi di Scott McVittie nel 2016 dal titolo “Nike and the Pigmentation Paradox: African American Representation inPopular Culture from ‘Sambo’ to ‘Air Jordan’” :

Nike executives understood that by the 1980s many white Americans were eager to embrace token or exceptional individual African Americans, and so, looked to present a black athlete as an embodiment of their corporate ideals.

I dirigenti Nike capirono che entro gli anni ’80 molti bianchi americani sarebbero stati desiderosi di accogliere (l’idea di) persone afroamericane eccezionali e simboliche, e quindi cercarono di presentare un atleta nero come incarnazione dei loro ideali aziendali.

e ancora

Nike is proud to promote itself as the patron of a democratic ideal of sport despite the reality that consumerism and sport can do little to confront practical or political discrimination in American society. Consumerism offered up individual black success stories and invited a mass of disenfranchised African American youths to buy into a symbolic site of transcendence, while also denying the institutional barriers that kept the vast majority of young blacks from ever being“like Mike,” socially, economically, or in terms of cultural acceptance.

Nike è orgogliosa di promuoversi come patrona di un ideale democratico di sport, nonostante la realtà sia che il consumismo e lo sport possano fare ben poco per affrontare la discriminazione pratica o politica nella società americana. Il consumismo ha offerto storie di successo di persone nere e ha invitato una massa di giovani afroamericani emarginati ad investire in un sito simbolico di trascendenza, negando al contempo le barriere istituzionali che hanno impedito alla grande maggioranza dei giovani neri di essere socialmente, economicamente o in termini di accettazione culturale “come Mike”.

Il consumo come sito simbolico di trascendenza.

Dal punto di vista strutturale questo tropo é diventata la quintessenza del pensiero capitalista ma esiste anche un piano emotivo che continua ad alimentare la macchina autopoietica del desiderio indotto.

Il sentimento di autoconservazione di chi soffre, da un lato fortifica e riscatta un’immagine di se stessa che non viene sufficientemente rappresentata, colta e tutelata dalla società, mentre dall'altro si crea una sorta di piccola profonda spaccatura tra chi può far parte di quel gruppo e chi ne rimane escluso. In parole povere, per chi non ha la cittadinanza e chi ce l’ha, per chi non é discriminato e chi lo é, per chi non é nero e chi lo é, per chi può capire cosa si prova e per chi no.

Sostengo che tale processo coadiuvi e incrementi l’apporto valoriale delle “etichette”, della funzione tassonomica che svolge la categoria, la classe e l’ordinazione strutturata del mondo verticale, incentivando un rischio che personalmente percepisco come il più alto : l’affievolimento dell’empatia e la dissoluzione della reciprocità.

Claudio Magris, in un magistrale articolo uscito nel 2009, descrive l’impagabile lavoro di Édouard Glissant, filosofo e scrittore Martinicano, spiegando come egli nella sua produzione letteraria fornisca

“…la giusta rispo­sta all’equivoco e lacerante dilemma tra la pau­ra della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e l’esasperazione delle diversità stesse, ognuna delle quali si chiude regressivamen­te alle altre in un gretto micro-nazionalismo”

continuando a descrivere la sua figura come “…del tutto immune, pur nella spietata rappresentazione dell’orrore, da quel risentimento, da quella viscerale concentrazione su se stessi e sul proprio dolore che sono umanamente comprensibili e spesso quasi inevitabili in chi ap­partiene a un gruppo o a un popolo che hanno subito (e talora subiscono ancora) oppressio­ne, ma tolgono fatalmente libertà interiore e signorilità.”

Sentendo risonanza in queste parole, osservo il processo auto-inflitto di “marcazione”, ossia la giustapposizione di etichette, nomenclature, classi generate dal sentimento-minaccia che ci convince a conservare e difendere le rispettive storie e le comunità per paura di perderle.

Non é tutto, il timore é che questo processo emotivo ci spinga a ridurci a dei grotteschi simulacri di noi stessi, futuribili agenti di pensiero che radicalizzano un diritto alla sofferenza e lo custodiscono con gelosia, rinforzando la divisione generato del senso di frustrazione, a costo di concentrarci istericamente su noi stessi, pagandone un caro prezzo: escluderci vicendevolmente.

Un pensiero che mi ha pre-allertato dell’errore di cui sto parlando e che potremmo facilmente commettere, lo ha ricordato Teju Cole in Punto D’Ombra : “If you’re too loyal to your own suffering, you forget that others suffer, too.”

Cerco di esporre dei sintomi di ciò che osservo — non desidero propinare soluzioni ma porre l’interrogativo : cosa saremmo senza un nome? Come ci farebbe sentire l’idea di perdere quell’abitudine tanto antica che é quella di dare un nome alle cose?

“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet?”

Senza un nome, una categoria, una voce di enciclopedia mancata. Rinunciare alla (sovra-) identificazione significa rinunciare a una parte essenziale di noi stesse/i essenziale per presentarci al mondo? o é solo il mondo che ci chiede insistentemente di presentarci secondo regole coatte prodotte come capriccio velleitario di organizzazione del mondo stesso?

Se la risposta é si saremmo ugualmente minacciati dalla paura di non saperci più riconoscere, come forma predittiva di difesa, ma saremmo forse meno rintracciabili, meno propensi alla materia malleabile, meno favorevoli a barattare noi stesse/i in cambio di un’immagine più chiara e definita dal grande demiurgo sociale, quale é il consumo.

Troviamoci spogli o spogliati. Nudi, come sinonimo di liberi.

Si può conservare e amare se stessi senza snaturare l’interesse verso gli altri, e ci si può aprire alle/agli altre/i senza avere paura di rinunciare a una parte di sé? Possono le nostre imprevedibili connessioni relazionali, culturali, emotive, sfuggire alla bramosia dell’industria?

Confido con speranza in una risposta positiva.

Pena : il muscolo dell’empatia dirigersi verso l’atrofia, ed é cosi che il consumismo inibirà un fattore decisivo per un cambio di prospettiva significativo : la capacità di ribellarsi.

Mi sono sentita “corrisposta” quando di recente la scrittrice Rafia Zakaria, ha pubblicato un articolo su Al Jazeera, denunciando la nuova campagna pubblicitaria di Nike che promuove un hijab disegnato per fare sport (con un logo che spicca più del viso che incornicia) : nell’articolo si menziona la nascita di Vogue Arabia, collegandola alle passerelle di Dubai e sottolineando come le donne musulmane potrebbero concorrere alla corsa contro le strategie di marketing che mostrano lo shopping come empowerment e il consumo come una relazione profonda con sé stessi.

Negli highlights dell’articolo infatti si legge

“Just as Vogue capitalises on the Muslim world’s general longing to be included in the ranks of global high fashion, Nike capitalises on similar desires to be included among the lean and mean women of global sport “.

Quanto rischiamo quindi noi che stiamo in basso e assistiamo più o meno supinamente a fronte di un abituale dividi et impera, mentre si calcola un fatturato compiuto letteralmente sulla nostra pelle?

Il consumo banalizza i nostri bisogni e la relazione verso di essi, siamo convinti di alleviare le nostre pene comprando, liberandoci — apparentemente, da un’oppressione e una frustrazione che ci dà il tormento, nell’atto di esercitare un potere di possesso.

Non sembra esserci altro modo per conoscere la pace se non attraverso l’esperienza dell’acquisto che quieta un’esistenza in agonia.

Credo che la medesima sorte toccherà alle storie personali e collettive, alle credenze, le abitudini, le pratiche, i patrimoni che abbiamo finora coltivato con la cura e la tutela, poiché un giorno forse anche essi saranno prodotti in serie e triturati sotto la grande trebbiatrice del mainstream.

Il prodotto é un sedativo, affievolisce progressivamente ed elimina lo spessore emotivo. Svilisce la fatica compiuta per una conoscenza che matura nel tempo, mortifica parimente i sacrifici e le rinunce fronteggiate durante il tragitto di vita dei nostri parenti, dei nostri amici, di noi stessi.

Laddove il consumo scorge debolezze e processa i nostri desideri di conforto, la strategia commerciale dell’offerta personalizzata viene accolta come un riscatto, una liberazione e una celebrazione della differenza esasperata, senza accorgersi che dopo l’iniziale sollievo di compensazione, qualcosa di avvilente lederà le nostre coscienze accontentate.

I gadgets, i preconfezionamenti, la serialità : qualità o strumenti utili per rappresentare dividendo, fortificare un immaginario rivendicandolo.

Il rischio é che per un motivo di riscatto ci si infili dentro a gabbie ideologiche in cui il consumismo detta le regole, prendendo il posto del tempo che serve per maturare cultura e conoscenze uniche, rispettose dell’imprevedibilità che le porta a co-fondersi.

L’ oppressione sociale non ha mai giovato alla liberazione dagli schemi, li ha invece sempre più compressi e infittiti in gruppi più chiusi, nell’esasperazione globale, nell’insofferenza reciproca, giocando su sentimenti primordiali e manichei di appartenenza o esclusione, dirottando la pista verso vivere mutuo.

Nike Hijab aiuterà forse la autodeterminazione sportiva delle giovani musulmane, in un primo momento almeno, ma sul lungo termine quali effetti può portare?

Il veleno sta nella dose.

La possibilità di aumentare facilmente consensi e far sentire rappresentati i non rappresentati. E con quale intenzione giacché é l’intenzione che garantisce e dimostra nel tempo il sincero interesse di un gesto?

La mia proposta dunque é quella di compiere un lavoro collettivo, di superamento e di introspezione, atto a rendere noto uno stato di cose e valutare insieme delle negoziazioni con noi stesse/i.

Affilare la nostra capacità di sovvertire i codici, risparmiando le energie che avremmo speso distruggendoli, effettuare détournement quotidiani in presenza di atti opprimenti, di derisione e depotenziamento di tutto ciò che si spaccia come la soluzione a un problema in cambio della carta di credito e dati, tanti tanti dati.

Non siamo solo quello che sembriamo (men che meno ciò che compriamo), siamo soprattutto ciò che pensiamo e ciò che viviamo, una imprevedibile combinazione di emozioni che non si devono e potenzialmente non si possono tracciare, al fine di rendere difficile il compito della catalogazione umana.

La definizione di identità é da ritenersi concettualmente infinita e si rende sempre più inafferrabile con il divenire della coscienza, delle scelte etiche e intellettuali che per stile intrinseco mutano e si mutuano a processi sociali di dimensioni non contenibili e computabili.

Il corpo, la biopolitica, la disciplina educativa e le attribuzioni identitarie alla nascita sono celebri dispositivi di controllo e smistamento, nonostante la fama che li precede, quel momento che interrompe questo tacito abuso giunge sempre più lento e affaticato.

La nostra capacità sovversiva non si limita alla liberazione estetica ma si configura mentre rivalutiamo la potenza della nostra interiorità e coscienza.

I problemi sociali che ci affliggono sono generati da condizioni di frustrazione che non trovano risposta o corrispondenza tra bisogni considerati primari e la possibilità concreta di soddisfarli.

L’ambizione viene frustrata dalla paura, l’invidia prospera nella scarsità di risorse e la paura dall'isolamento si atomizza in una matriosca di micro-comunità circostanti.

Il consumo, come la legge sulla cittadinanza e l’istituzione, sono luoghi di potere che crescono in proporzione alla nostra progressiva disgregazione.

Le etichette non sono fatti, non sono esperienze, esse esistono solo se noi ne legittimiamo e reifichiamo l’illusione, e se la loro necessità d’esistere ci viene suggerita da un impulso d’invenzione e fantasia che mette al mondo la realtà compiuta del linguaggio.

E’ lecito dunque chiederci come mai, oltre alle altre cianfrusaglie decorative cucite su felpe e mutande, sentiamo ancora forte il bisogno di portarci appresso dei blasoni identitari marchiati sulla cute.

Articolo apparso, in versione ridotta, sul Corriere della Sera — 11 Aprile 2017.

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