Dell’offesa

Noura Tafeche
18 min readOct 8, 2021

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3 Agosto 2021.

Sono convocata per ricevere la mia prima dose di vaccino, attendo in fila, quando arriva il mio turno vengo accolta alla scrivania da uno dei tanti medici che prestano servizio in un polo vaccinale della città.

Quando fornisco i miei documenti il medico legge a voce il mio nome e cognome per compilare un documento di registrazione.

Con il nome, Nura, si fila lisci.

Mentre il cognome Tafeche — da leggersi Tafesh*, procura sempre una comprensibile difficoltà.

Un medico può leggere con disinvoltura Sternocleidomastoideo ma é palese il tilt in corso tra le sue sinapsi quando trova una H in un cognome non italofono.

Il dottore alla vista di tale componimento di consonanti e vocali, ha azzardato una frettolosa combinazione di lettere con un volo doppio carpiato che ha sfracellato a terra ogni possibile somiglianza con il nome originale.

Impressione prima facie : il medico non é all’altezza di somministrare un vaccino se la difficoltà di lettura di un nome proprio supera la capacità di razionalizzare, rallentare o perfino fermarsi e poter domandare al paziente “come posso pronunciare correttamente il suo nome — così come sono obbligato a fare per una diagnosi?”

In seconda battuta invece ho rettificato la mia impressione : Ci può stare.

Si assumono familiarità differenti con i nomi e di frequente la paura di sbagliare la pronuncia onomastica (diversa dalla pronuncia medica e tecnica — di cui invece si riceve ampia istruzione in Università) può creare imbarazzo tale da improvvisare sul posto una serie di fonemi al fine di non lasciare vuoto uno spazio creato dall’imbarazzo stesso.

Con il risultato finale per cui, lieve o greve che sia, un po’ di nervosismo spazientito si genera in tutti i presenti.

Un medico può accogliere una paziente con disinvoltura salutandola con un “Buongiorno” ma rientra nello stato tilt quando il nome della paziente + la sua fisionomia seppur abbozzata dietro una mascherina lo portano ad aggiungere, con un tono pericolosamente liminale tra lo scherno staffilante, sprezzante sussiego e gentil candore :

“Ma lei capisce se parlo Italiano? Si no perché vedendola…” Brandendo la sua stessa mano dall’alto al basso per indicare la verità lapalissiana sulla mia persona.

Il dottore aveva appena finito di leggere cittadinanza Italiana sul documento.

In prima battuta penso : porcxxxx

Casus belli #2355.

Sorpasso la mia ripugnanza accessionale per l’intercalare “Si no perché…” per concedere libertà ad epiteti, pulsioni e istinti foschi di accendersi in pochi istanti nell’elettricità della mia massa grigia.
Vibro alla vertigine dell’ingiuria ricevuta camuffata da innocua illetterata sollecitudine o intenzionale cattedratica superbia, e ritrovo quel senso dell’affronto, memore di eventi pregressi, alcuni d’infanzia, ma tinti d'una scostanza meno intensa.

In seconda battuta invece dico : Non é solo la domanda ad essere sbagliata, lo é anche la mia reazione in quanto questo risultato é parte concorrente di un fallimento di cui mi assumo compartecipe responsabilità.

Se il futuro decennio dovrà essere investito a re-immaginare il lavoro di cura, come ci promettiamo da quando il trauma intra-pandemico si é contemperato ai nostri equilibri, lo stesso impegno sarà richiesto per riformulare l’approccio tra sconosciuti e ripensare l’Offesa.

Il senso partecipativo al fallimento di cui parlo é posto in diretta relazione ad un crescente “senso espanso dell’oltraggio ricevuto”, ossia una cappa di insoddisfazione data dalla disuguaglianza che cresce in accumulo al moltiplicarsi di eventi e storie analoghe e peggiori alla sopracitata, in cui il senso di straniamento e il sentimento di auto-percezione à la Edward Said “sempre al posto sbagliato” compatta la comunità degli oltraggiati tramite un collante, una forza coesiva di reciproca intesa nata da esperienze negative, dolorose, di cordoglio corale.

Ho immaginato una serie di possibili scenari per descrivere la questione dell’oltraggio ricevuto, provando al contempo a divincolarmi da esso, poiché da quel giorno ho iniziato a individuarne i potenziali letali — o peggio, lentamente terminali.

Se in relazione a questo episodio avessi deciso di intervenire guidata dal sentimento di fastidio, rabbia protratta o da un rancore affaticato ed esacerbato da precedenti esperienze analoghe :

Avrei scelto di mortificare il medico.

Di punire con disappunto la sua manchevolezza vendicandomi con del disprezzo, perfino intimidatorio — se avessi voluto abusare, coinvolgendo finanche il pubblico di astanti che assistevano in fila.

Del resto, quante altre volte (∞) é capitato a me, ai miei familiari, amiche, amici di venir dubitati* in quanto italofoni certificati o cittadini con legittima facoltà di comprensione e intendimento.

*il corsivo é per marcare la proprietà passiva di subire un sospetto, di assorbire un dubbio da parte di Altri rimanendo schiacciati dalla circostanza.

Ogniqualvolta mi rechi assieme al mio partner in un luogo di esercizio pubblico, vengo regolarmente considerata la sua interprete : lo sguardo e la parola vengono rivolti esclusivamente verso di me, in quanto il partner possiede una fisionomia e onomastica considerate più problematiche per la diretta attribuzione di presunta Italianità e comprensione delle domande che gli vengono rivolte nella lingua nazionale.

Le addizioni progressive di tali nefasti aneddoti o altri ben peggiori, sono parte di quel senso espanso a cui mi riferivo prima, che consiste in una disseminazione percettiva dell’imminenza della minaccia, in una trasfigurazione parossistica di elementi identificativi, e di un’irrichiesta sovrabbondanza di commenti extra-narrativi, che alterano il corso delle relazioni, disintegrando dei processi sociali necessari (id est la fiducia, la collaborazione) per sostituirli artificialmente con altri che da collettivi diventano individuali (il sospetto, la diffidenza).

Risultato scenario 1 :

Il medico probabilmente mi avrebbe considerata al limite della frustrazione.

Egli ha trovato lecito e coerente con le sue opinioni e schemi gestaltici sottolineare la proprietà eccedente di quella premura aliena al limite tra l’aiuto cortese e l’esercizio di potere.

Una soglia che frastorna.

La mia rabbia avrebbe umiliato un tentativo di soccorso in un caso o corroborato la superbia nell’altro.

Ci sconcerta la difficoltà di come possiamo correttamente interpretare le intenzioni che si annidano nella banalità, e ci sconcerta la facilità di come possiamo precipitosamente dubitare dell’onestà che si dissimula nella cortesia, spesso, la più istintiva delle reazioni che peschiamo per prossimità al riscatto, é la rivalsa irata.

Un sentimento negativo, per quanto legittimo, non viene mai ricompensato e pareggiato dalla rappresaglia, per sua natura la vendetta ritorsiva é un processo di cui non si può vedere né porre fine poiché la sua radioattività si propaga incomputabilmente.

Mi sarei perciò portata a casa un travaso di bile, una punta di vanità per aver esposto il medico a plateale gogna, nessuna certezza di aver colpito con efficacia la coscienza del mio interlocutore e neppure reso giustizia al mio stesso senso di rettitudine data la scarsa ricompensa in termini di soddisfazione personale annebbiata dalla collera.

1–0 per me

Se fossi intervenuta con gentilezza :

Avrei accompagnato il medico verso una breve spiegazione para-diplomatica sull’importanza che ricopre l’intero processo di cura e tutela della dignità del paziente, di cui, anche fosse il 5 milionesimo del giorno, ha pieno diritto.

0–1 per me

Risultato scenario 2 :

E’ opinione diffusa che il medico non abbia tempo di dedicarsi ad esigenze di tipo relazionale meta-professionale e che si pretende troppo perfino dal suo eroismo.

Le osservazioni sopracitate andrebbero considerate come alibi intrisi di morale epica e superstizione, altrimenti per convenienza — e usando la medesima carta Omerica, in quanto eroe, persona capace di imprese straordinarie, al medico é richiesto maggiore sforzo e attenzione verso il paziente poiché ciò di cui godiamo é insufficiente e inadeguato a completarne il mito.

Se fossi intervenuta con ironia :

Una semplice battuta di spirito per sdrammatizzare senza minimizzare.

Un elegante tentativo di golpe sulla presunta superiorità intellettuale del medico a cui spesso ci si sottomette per reverenziale e compulsiva sudditanza.

Una prova generale di messa in scena del ridicolo alleggerito da quegli scivoloni di classe propri del cinismo.

Risultato scenario 3 :

Se la battuta é stata felice : ne potremmo uscire, nel peggiore dei casi, con una risata di cortesia, mentre nel migliore congedandoci in un sotterraneo, complice accenno di intendimento.

Molto spesso la messa in evidenza del carattere paradossale della realtà aiuta a disintegrare la stessa dimensione intrappolata negli assolutismi intransigenti che ripropongono stereotipi sia nella figura dell’Offeso che dell’Offendente, in cui alla fine nessuno davvero si riconosce, nemmeno per ammettere un errore, porgere le scuse o riconoscere l’autenticità di un’emozione.

1–1 pari

Se la risposta é stata infelice quanto la domanda incipiente (“ma lei capisce se parlo italiano”): insulto per il medico, apparente rivincita per me.

A che scopo contraccambiare l’iniquità?

0–0 per tutti

Le risposte non sono da ritenersi tanto importanti, penso anzi assumano un maggiore rilievo le domande.

Qual è dunque la situazione in cui sarebbe più difficile immedesimarsi se dovessimo rimettere in atto la conversazione?

Di solito si diventa stitici di immaginazione quando si virtualizza un “come sarebbe se” interpretato con piglio ironico, paradossale e comico, specie dopo aver subito uno sgambetto alla gamba buona avendo l’altra dimidiata.

Altrettanto difficile sarebbe immedesimarsi calzando la guaina della gentilezza.

E’ arduo mostrarsi signorili, per timore di sentirsi manchevoli o che l’affabilità venga confusa con ingenua benevolenza, per tormentarsi poi al dubbio di essersi sentiti presi in giro o disposti ad essere nuovamente calpestati.

Il più facile invece penso proprio sarebbe stato l’approccio dell’Offeso, mi sono chiesta come mai.

Il pensiero mi conduce a credere che gentilezza e senso dell’umorismo richiedano vigile controllo e callida preparazione ad affrontare con surrealismo la realtà — seppur senza mai scollarsi da essa, giocando con una miscela delle diverse fenomenologie : di come la realtà ci appare, dell’esperienza che ne facciamo e di come presumiamo che l’Altro la interpreti.

Del resto é essenziale chiedersi se e come viene recepito ciò che diciamo, a meno che il nostro comunicare sia volontariamente riducibile a sfogo e lo spettatore fungesse da comparsa superflua, come un recipiente informe in cui travasare liquido.

Controllo e preparazione dunque, ma di una qualità distinta rispetto alla cultura dell’affronto subito — che permette di individuare altrettanto rapidamente i ruoli di abuso, abusato e abusatore, senza però aggiungere quei connotati intertestuali, che come dirò più avanti ritengo necessari per instaurare un cambiamento di paradigma significativo.

Essere leali verso la propria sensibilità é giusto, e lo affermo quando questa non sia disposta a esclusivo vassallaggio di una preminenza del risentimento.

Per spiegarmi meglio azzardo una considerazione : il senso dell’offesa ricevuta é una legittima e fisiologica risposta in difesa di sé, della causa e della comunità che si protegge, ma che per accumulo si trasfigura in rancore (per definizione é caratterizzato da tenacia) che avvilisce collateralmente l’erranza di una libertà interiore.

Una limitatezza che costringe questa erratica propensione del sé a cullarsi in un bozzolo auto-glorificato, in misura ideale per la coltivazione di un pensiero in proporzioni ristrette, predisposto a riconoscere in modo inequivocabile sia chi offende che chi rimane offeso, ma al contempo conforma in ruoli divisionistici spesso esasperati, eristici, tendenti a conservarsi tali per mantenere ordinate le gerarchie dei torti e solide le impalcature delle offese, con relativi esercizi di potere.

L’Offeso si trincera così in una propria dimora che ne diventa la sua tomba, costruita sulle spoglie della sua stessa acredine, soddisfandosi di complicità tra i membri della stessa comunità parlante l’Offesa.

Sull’altro piatto della bilancia invece troviamo chi Offende.

A mio parere tale figura possiede due caratteristiche :

  • gode di assoluzione di responsabilità (per così moltiplicare l’offesa e lo sdegno dell’Offeso) per poi tornare nell’ombra o nell’impunita indifferenza
  • viene esposta a pubblico ludibrio, per la compiacenza e (talvolta solo temporaneo) senso di risarcimento dell’Offeso

ma a cui sicuramente viene negato accesso a un metodo, a un portale, a uno specchio per realizzare e ri-proiettare verso di sé il danno che ha commesso.

In questo modo nessuno dei presenti coinvolti riceverà beneficio alcuno.

Prevedibile controbattere asserendo che é compito loro, non nostro, rimediare. É compito loro, non nostro, capire.

Perpetui dualismi ed eterne rivalità : di sovente sono i forti estremi in opposizione a vincere la prova della storia, sono i grandi antagonismi — chiari, netti e distinti che rendono il mondo più ordinato.

Eppure la parte giusta di questa storia ordinata annoia, vizia, rende impraticabile l’abilità di vedere due verità contraddittorie al medesimo tempo, per questo motivo giungo in difesa dell’antinomia, della soglia e degli sconfinamenti surrealisti che lasciano spazio alla riesamina, alla rivalutazioni delle posizioni, capaci addirittura di rinforzarle, seppur in modo non convenzionale.

Un Offeso Inconsolabile leggerebbe questi ultimi termini come negazionismo, tradimento, sindrome di Stoccolma, ma ritengo questa un’adesione acefala al manifesto delle scorciatoie, una lettura di comodo per non impegnarsi nell’ avanzamento di un ragionamento strutturato, finanche attaccabile ma almeno argomentabile, realmente interessato alle conseguenze storiche e i fisiologici tempi di gestazione di un processo intellettuale e sociale controverso, non riducibile alle classiche tassonomie.

Entro i confini dell’attivismo contemporaneo, osservo come un elemento essenziale distingua e dimostri la buona salute dell’intenzione (il lubrificante di quel motore primario che é la volontà), questo elemento é la costanza.

Ho sempre pensato che solo il tempo potesse decretare l’autenticità dell’intenzione.

Anche l’intento amoroso, come quello politico, si rivela attraverso questa intangibile componente intuitiva che regola memoria, ritmi e attesa.

“Ti amo” e “Decolonizzare le pratiche” necessitano entrambe di lunghe scansioni cicliche per comprovare l’onestà dell’intenzione enunciata.

La costanza pregiudica l’effetto desiderato, la manutenzione periodica degli stati che si desiderano cambiare richiedono qualcosa di più della semplice presunzione di credibilità.
Questo significa rimanere : fermarsi ad ascoltare la risposta di chi si critica, non rifuggire la contraddizione, restare a prendersi cura delle conseguenze, non solo preoccuparsi di emettere quell’istantaneo imperioso hic et nunc e pretendere che esso basti per sentire di aver fatto la propria parte.

Rimanere e partecipare senza presuntuosamente esigere che la mutazione avvenga simultaneamente non appena la nostra bocca emette il suono della denuncia e dell’oltraggio subito.

Da annotare che non considero, in questa sede, l’Offeso al pari del Permaloso.

Permaloso : Detto di persona facile a offendersi, che, per eccessivo amor proprio, si risente e s’indispettisce di atti e parole che altri non considererebbero offensivi e che per lo più non sono tali nelle intenzioni. (Treccani)

Vista la facilità con cui si distingue il piglio ipersuscettibile, si può dire che la permalosità sia una reazione effimera all’affronto, un temporaneo effetto da cui ci si solleva al mutar dell’umore, una sensazione che si può dimenticare o da cui ci si libera con agilità.

L’Offeso — nella declinazione cui attribuisco in questo contesto, può avere piene, valide e intime ragioni nel provare l’Offesa, la differenza con il permaloso giace nell’immutabile impermeabilità alla valutazione della circostanza, al mantenere interiorizzata l’Offesa, e protrarla fino al risentimento, sviluppando un’immunità alla riesamina, intesa come la capacità autodifensiva di neutralizzare o respingere tutto ciò che si rivela svantaggioso per un dialogo riparativo all’errore poiché sotto questa egida non c’é spazio per perdono né condizionale, la pena é l’esplusione.

Sentirsi Offesi é percepirsi come membri di una famiglia, da qui il maiuscolo, che permette all’Offesa di assumere il potere pari a quello di una cultura, con i vizi e le virtù tipiche di un’inclinazione sociale diffusa, dal carattere fortemente imitativo.

Seppur l’imitazione — a intuito, possa essere anche di istintiva, facile riproduzione (facile come il modo in cui permaloso si risente), a mio avviso questo processo imitativo é estremamente arduo, oneroso in termini di carico emotivo e cognitivo poiché é proprio attraverso queste forme identificative essenziali del comportamento che “il senso espanso dell’oltraggio ricevuto” si diffonde : per eco e replicabilità del sentimento.

Quando il filosofo Miguel Benasayag nel 2013, o Spinoza molto prima, fece riferimento alla cultura delle Passioni Tristi si rivolgeva a una generazione di persone assorbite e dedite al culto dell’Impotenza e della Disgregazione. Mi chiedo se sia questo uno dei motivi per cui il carattere imitativo dell’Offesa sia divenuto più istintivo di quello che vorremmo, e osservo come tutte e tre le condizioni, Offesa, Impotenza e Disgregazione, in modi diversi, appartengano al dominio della Rassegnazione, un fatalismo adattato all’irreparabile.

Nel medesimo modo con cui la carica imitativa travolge il sentimento, lo stesso ascendente può travolgere il pensiero, tramutandoci così in una schiera di epigoni.

Di recente ho dovuto studiare un testo per un esame universitario, l’argomento trattava il biopotenziamento morale delle masse, vale a dire un metodo sperimentale di intervento artificiale (per vie farmacologiche) su particolari aree del cervello perché le nostre funzioni intellettuali siano manipolate a fini migliorativi, giacché i talenti emotivi, le disposizioni cognitive e l’adeguatezza morale che attualmente possediamo sono inadatte per poter fronteggiare l’imminente collasso planetario.

Si trattava perciò di attendere e sopportare fino alla fine della disamina filosofica dove questa spudorata proposta di editing genetico volesse andare a parare.

Ogni pagina era un’affronto, una resistenza al buon senso, uno costo per la decenza e in ultimo, una minaccia.

Eppure é stata proprio quella lettura, l’esposizione e la rielaborazione personale a ritemprare una capacità di analisi che ritenevo perduta, ironicamente potenziata in un modo già predisposto nel mio circuito neurale.

Con essa ho rinnovato il mio spirito d’esame, ho accolto le ambiguità che mi si presentavano, sfidato la mia stessa capacità di argomentazione critica, ritrovato un’energia intellettuale, come nessun’altro dibattito pieno di consensi ed assensi avrebbe mai fatto.

Nonostante l’indignazione iniziale provata sin dal primo capitolo — sentimento che poi ho riconosciuto essere figlio del pregiudizio per difesa — ciò che mi ha permesso di espandere la mia coscienza é stata la predisposizione a lasciare che l’affronto oltraggioso mi venisse incontro senza porre resistenza perché in me si stimolasse un nuovo processo intellettuale.

Si può ribattere nei miei confronti che la minaccia percepita non era diretta ma virtuale, poiché era mediata da una lettura e non si trattava, ad esempio di un’aggressione verbale live, e che dunque intercorre una differenza di sostanza tra le due che squalifica la mia posizione.

E’ vero, nonostante ritenga con fermezza che l’esempio sia valido per ragionare in termini di reazione poiché é questa la prospettiva delle conseguenze su cui vorrei continuare a soffermarmi.

Numerose sono le quasi-aporie, i dubbi quotidiani che affliggono il problema dell’identità, del diritto, della giustizia globale, dell’educazione civica, del contrasto permanente alla discriminazione, la resistenza e l'individuazione vigile delle micro aggressioni e le sue dirette conseguenze nel presente e nel futuro.

Mi é spesso capitato di ascoltare e ragionare sui crescenti quesiti posti dalle persone coinvolte.

Ad esempio :

”Lascio correre. Mi limito a sperare che la prossima volta chi mi ha offeso quel giorno, si ricordi di usare la creanza di riflettere prima di parlare“

”Secondo te dovevo intervenire? Se non l’ho fatto vuol dire che sono debole? Forse sono incorso in un blando permissivismo, il medesimo che impedisce all’asticella sociale di ascendere per redimerci dalla classe che opprime e annulla”

“La risposta d’intervento dev’essere essere commisurata a un codice deontologico a cui non posso sottrarmi oppure sono libera di comportarmi a seconda del mio umore della giornata?”

“Fare a botte.”

“Che ne sarebbe della reputazione sociale per la difesa dei diritti civili se rinunciassimo a combattere ogni qualvolta si presenti l’occasione per farlo. Il timone non va abbandonato”

O ancora “L’intervento crea un precedente che aiuterà a chi verrà dopo di me a non dover subire un’ingiustizia duplicabile, soprattutto se desideriamo che la progenie sia esentata dalla possibilità di crescere con superflue insicurezze che si riveleranno poi essere traumi”

E’ come compilare uno storico dell’impegno civile, a cui si aggiungono pagine e pagine d’elenco di gesti, richiami, interventi, azioni dirette, talvolta rappresaglie per non lasciare impunite delle scorrettezze o vacanti delle responsabilità.

Le storie di abusi verbali, micro-aggressioni quotidiane, le leggo, le vivo, le colgo e le raccolgo da 15 anni.

Siamo stanchi, esauste, ma anche rimasti fermi a condividere le stesse battutacce e lezioni che riceviamo o impartiamo, nessuna variazione sul tema.

Ciò che obietto é che a rimanere immutata é perfino la nostra trasmissione orale e scritta della condizione di oppressione che sentiamo di vivere e che, dopo tanti anni, sento essersi ridotta, contrita, adagiata in antagonismo di riflesso e deontologia conservatrice.

Penso che il nostro slancio si stia allentando in un pretenzioso atteggiamento rinunciatario imbolsito dal peso dell’Offesa.

La regolare ripetitività delle domande che si riceve, disgraziatamente duplica anche la monotonia nelle risposte che vengono date.

Come diceva Borges gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.

L’abominio della moltiplicazione in questo caso giace nel suo automatismo.

Accuso l’offesa di assumersi un potere e una pretesa illegittime, quelle di creare cosmogonie che nascono sul rancore, coltivare sentimenti esclusivi resi intoccabili, nella privatizzazione del dolore impugnato sia come scudo che come spranga.

Il rancore lascia soli, unisce in connessioni di empatia solo in apparenza, ma nessuna comunità prospera e lieta si é mai saldamente poggiata sulle fondamenta del risentimento, che non può e non deve avanzare a tali condizioni.

A mio parere, custodire il tesoro dell’offesa non contribuisce a costruire alternative di uso partecipato, né aiuta a disfare quella rigida trama e ordito di sentimenti di cui non sembriamo riuscire a spogliarci per ritrovare noi stessi.

Cresce in me la preoccupazione quando rivolgo un pensiero a una delle proprietà dell’offesa, la stagnanza : quando l’offesa non viene contraccambiata per rivincita o non viene risarcita per giustizia, essa viene (o rimane) interiorizzata, fatta a proprietà, accumulata in quantità.

L’offesa affatica ogni prospettiva di ripresa e di slancio in avanti, é un peso da portarsi a presso, un’esasperazione corrosiva che si nutre del midollo esistenziale, per offrire un immutabile presente.

Ritengo inoltre che l’offeso conservi una forma di potere che piega al suo cospetto la spontaneità di una relazione, includendo a sé quella formalità da contratto per cui qualcuno che non siamo noi sia messo nella condizione di chiederci scusa in via perpetua e preventiva. Questo servizio é atteso da un rapporto su cui si esercitano implicitamente un controllo e un diritto.

Per estrema paradossale scongiura del conflitto si dovrebbe arrivare a una conversazione con le scuse in tasca, altrimenti é Penitenza o Colpa, i residui clericali di un compost ideologico mai del tutto estinto perfino dai terreni più ostili al rigore disciplinare.

La proprietà statica dell’offesa é una carezza che coccola, accontenta, accresce i consensi nella comunità di offesi ma educa al conformismo dell’emozione e procura dirottamenti nelle relazioni, nello sviluppo del conflitto e nella sua gestione.

Il consenso nell’accezione contemporanea tende a somigliare più a un moralismo addomesticato di quella che si ritiene essere un‘unanimità di coscienze critiche uniformate, rispetto a una partecipazione consapevole e inclusiva delle obiezioni, della salutare conflittualità interna ai pensieri complessi — sfumatura pertinente al pensiero libertario.

Lo sforzo sociale, perché sia compiuto e soprattutto il suo risultato mantenuto nel tempo, penso non si possa compiere che in mutua cooperazione : non ritengo che il culto del diritto all’offesa possa proteggerci o esimerci da nuovi costosi sforzi, o che esso, come un Deus ex-machina sia sufficiente perché possa agire per noi un cambiamento.

Basta offendersi perché si esiga che il mondo corra a riparare all’Offesa, io sono offesa e tu mi dovrai chiedere scusa, per sempre.

Non é costruttivo per le fondamenta di una comunità operante per il cambiamento, specie se le istanze che si progettano per la riparazione all’offesa non sono precise, ma semplicemente pretese o lasciate alla totale responsabilità altrui.

Chi riparerà?

Sarà poi sufficiente il modo in cui l’addetto riparatore sceglierà o gli verrà imposto di porre rimedio?

Il nostro crescente senso espanso potrebbe arrivare ad occupare delle dimensioni insanabili tali per cui sarà impossibile ripristinare un’equità accettabile?

Quali strumenti mettiamo a disposizione perché si impari a misurare la giustizia in relazione alla responsabilità?

E come tirare le somme ancora in termini di giustizia quando dolore e trauma personale sono condizioni difficilmente computabili?

Ogni relazione richiede manutenzione, é quindi necessario fare una revisione programmata perché rapporti di riparazione si mantengano rispettati?

Entro quali limiti la riparazione può definirsi risolta?

Quali responsabilità, costi e conseguenze comporta invece mantenere uno stato di permanente inadempimento?

E’ molto difficile discernere le parti e vincere il disprezzo e la rivalità tra Offeso e Offendente, non si tratta di porgere l’altra guancia, ma di sgomberare la corsia intasata da sentimenti statici.

Se non fosse per l’estensione mastodontica dell’argomento si presterebbe ora il momento cairologico per affrontare la proposta e metafora esemplificativa della giustizia riparativa, un modello penale complementare e un approccio sperimentale di diretta responsabilizzazione dell’offensore, che a mio avviso rappresenta uno dei più grandi sacrifici di immedesimazione e immaginazione contemporanea, e per questo motivo, meritevole sopra altri di considerazione, dedizione e studio. Starà al singolo rifiutare o accogliere la sua applicabilità.

Un breve approfondimento in italiano per non lasciare insolute solitarie curiosità.

Da ricordare che Offensore e Offendente in questo contesto hanno due significati diversi, anzitutto per circostanziare e proporzionare il peso del fatto descritto nella fase incipiente di questo testo.

In secondo luogo perché l’Offensore possiede una valenza giuridica anche al di fuori da questo testo, l’Offendente per come io lo raffiguro entro questo ambiente non é un soggetto scevro da responsabilità e non va in nessun modo confuso o sovrapposto con la figura del criminale in materia di diritto.

Infatti il più gettonato e altrettanto comodo dualismo Vittima vs Carnefice allontanerebbe di molto la prospettiva da adottare in questo contesto, per questo motivo utilizzo il campo semantico dell’Offesa, che non implica e meno richiama a una condizione di irreversibilità.

La reversibilità dell’errore e la prospettiva di riparazione cooperativa é la proprietà essenziale su cui si poggiano la mia speranza, la mia proposta e la cassetta degli attrezzi che vorrei mettere in condivisone.

Se un’offesa é condannata a rimanere inconsolabile per la stessa mano degli offesi, il conformismo dell’emozione é quanto di più ambizioso — e indesiderabile — possiamo ottenere.

Ogni volta che rinunciamo ad uscire dallo stagno dell’offesa lasciamo il fardello della riparazione a qualcun altro, che senza dei metodi costruiti in mutua presenza non saprà mai come riconoscersi, emanciparsi, interrompersi anche per procurare meno di quel veleno che spesso ci auto-somministriamo.

Per avanzare una proposta concreta, seppur minima, ho immaginato a grandi linee, un breve seminario da sottoporre al personale degli asili, scuole primarie, delle anagrafi, degli ospedali e di tutti gli altri luoghi di amministrazione pubblica o privata, si affronti la questione della pronuncia dei nomi, che considero un primo semplice passo per un futuribile cambio paradigmatico legato alla più coriacea delle nostre credenze interiorizzate, colei che dirige silenziosamente la nostra volontà : l’abitudine.

In pronto soccorso un paziente può perdere il turno perché nessuno all’altoparlante ha saputo pronunciare il suo nome in modo riconoscibile, durante le premiazioni di un torneo la scorretta articolazione del nome del vincitore può creare storpiature e inutili imbarazzi di fronte a un ampio pubblico.

Spesso assisto a episodi di reticenza o di come molte persone provino vergogna quando tentano la pronuncia di un nome o una parola con un fonema diverso da quello che si é abituati a emettere nella lingua parlata tutti i giorni, può succedere per paura di esporsi a giudizi di inadeguatezza, per senso del rifiuto o peggio ancora per incolore, insospettabile sciatteria.

Ritengo giusto maneggiare la questione con estrema cura e massima priorità trattandosi di nomi propri ossia la prima delle informazioni non-biologiche che riceviamo, che ci vengono attribuite alla nascita e che connotano parti innegabilmente imponenti della nostra personalità, famiglia, comunità verso cui sentiamo un legame di affinità eletta o elettiva.

La mia proposta iniziale consiste nell’immaginare metodi, strumenti ricombinabili per la memorizzazione dei nomi, la loro trascrizione, la familiarizzazione con dei nuovi processi linguistici che credo determineranno un innegabile impatto storico nella sfera relazionale, personale, collettiva e, come dicevo prima, in quel regno quegli automatismi che procedevano indisturbati in coscienze indisturbate.

Questo scritto appartiene alla serie di articoli “Una casa per ciò che appare insignificante”.

Il Deus ex machina in una rappresentazione della Medea di Euripide al teatro greco di Siracusa.

*[Per la precisione la corretta pronuncia in lingua Araba del mio cognome vorrebbe una T dura, traslitterata in ṭ , a cui però la fonologia Italiana non concede grandi facilitazioni di riproduzione (é una lettera che non assomiglia a nessun’altra in lingue parlate da grandi numeri di persone e che richiede un contenuto allenamento della gola)].

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